Il Terzo Passo a stato l’avvio di un percorso che ha dato frutti. In concreto il mio affidamento è avvenuto con la scelta di ubbidire (come un bimbo) alle indicazioni di un medico tossicologo, che mi ha preso in terapia a condizione che io frequentassi un gruppo dei Dodici Passi. Ci sono voluti un anno e sei mesi per uscire dalla fase dei pensieri ossessivi: la diagnosi? Depressione reattiva. La cura: una seduta settimanale dal medico e tre riunioni di gruppo, l’assunzione di farmaci quando prescritti, la lettura della letteratura proposta in gruppo.
Un anno e sei mesi per uscire dalla mia testa e cominciare a vedere ed accettare la realtà delle mie relazioni e cominciare a dirmi la mia storia. Non ho trascorso quel periodo in un letto d’ospedale.
Avevo un lavoro che mi occupava per sette/otto ore al giorno ed era da svolgere in un ufficio assieme ad altre persone; un giorno alla volta ho appreso le nuove mansioni del mio incarico, i vuoti di memoria si sono ridotti, la concentrazione è via via migliorata; ho incominciato a rendermi conto del diverso modo in cui ognuno mi trattava e del modo in cui io mi rapportavo agli altri ed ai diversi compiti. Ho sperimentato che anche per gli altri il vissuto nelle relazioni interpersonali affettive incideva nel concreto dei comportamenti quotidiani sia verso le persone che verso le mansioni: “non capitava solo a me!”. Quello che il giorno prima non era un problema, il giorno dopo era motivo di discussione e/o di esplosione emotiva, essendoci una gerarchia di ruoli ho dovuto misurami con essa e dirmi come reagivo con i capi ed i subalterni; le mie pretese di principio (intellettuali) di eguaglianza fra diversi e con diversi gradi di competenze si sono scontrate con i miei comportamenti concreti di eccessiva compiacenza e disponibilità, ma anche di insofferenza, con l’incapacità di dire con calma ciò che non mi andava bene. Un giorno alla volta le relazioni si sono costruite e modificate, diventando con alcuni stima e simpatia e con altri antipatia. Ma sempre di più riuscivo a vedere i miei atteggiamenti e comportamenti senza condanne (è tutta colpa mia, è tutta colpa sua). Dopo un anno e mezzo di questa terapia intensiva, il medico ha paragonato la mia situazione a quella di una carta assorbente tirata fuori dall’inchiostro; dunque, era superata la fase di crisi, ma per migliorare mi consigliò di proseguire in terapia con un altro medico (e stavolta a pagamento).
Ho continuato a fidarmi ed ho capito di avere i problemi legati alla codipendenza; ero diventata solo reattiva e non più attiva.
E sono giunti frutti inaspettati:
E’ nato il gruppo CoDA di Treviso che quest’anno ha festeggiato i tre anni.
Ma più inaspettato è stato quello di svegliarmi una mattina con il pensiero di gratitudine per la madre che avevo avuto e la mia famiglia d’origine tutta; scomparso il rancore per come mi avevano allevata e insieme scomparsi, sciolti “come le nuvole dopo la pioggia”, i risentimenti ed i sensi di colpa.
Oggi, per me, affidarmi significa che ho da fare solo la mia parte e che per quella sono responsabile.
Oggi, per me, essere responsabile significa accettare di vedere come agisco e parlo e sento per poter progredire rispetto a ciò che posso cambiare nel mio comportamento e nel mio atteggiamento (quale abilità ho utilizzato, quali emozioni ho provato, quali le mie aspettative, quali le richieste degli altri e quale lo standard di ruolo con cui mi confronto). Essenziale oggi, per me, è riuscire ad essere contenta di me stessa, a volermi bene.
Codipendenza non è Amore; io lo credo e lo so perché mi è capitato di avvicinare persone che l’Amore ce l’hanno dentro; in quelle occasioni mi sono sentita cosi al sicuro e protetta e capita, che assieme alla disperazione di rendermi conto di ciò che mi ero persa fino ad allora, è venuto il desiderio di cercarlo anche dentro di me e nella mia storia.
Anonimo.